Renzo Piano: il Beaubourg quarant'anni dopo e la mia Parigi

Ispirazioni

ParigiCultura e Patrimonio

Francesca Avanzinelli
© Francesca Avanzinelli

Tempo di lettura: 0 minPubblicato il 7 marzo 2017

Eravamo nel ’71, a soli tra anni dal '68, nel periodo in cui i musei erano luoghi noiosi e polverosi. Eravamo giovani e disubbidienti, forse anche leggermente maleducati. Però una cosa l'avevamo capita... che non aveva senso costruire un luogo di cultura tradizionale.

Sono passati quarant’anni dall’inaugurazione del Centro Georges Pompidou, era il 31 gennaio 1977, una giornata limpida e fredda come solo il cielo di Parigi sa regalare. Da allora il Beaubourg, così lo chiamano les parisiennes, ogni sabato accoglie 30.000 visitatori e qui sono entrate 250 milioni di persone. C’era l’allora presidente della Repubblica Valéry Giscard d'Estaing, Pompidou che aveva voluto il centro culturale al quale è intitolato era morto tre anni prima. C’era soprattutto una folla curiosa di esplorare quella buffa astronave atterrata nel cuore della capitale francese. L’architetto Renzo Piano, uno dei due progettisti, ci racconta la grande avventura.

Che impresa architetto, cosa ricorda di quel periodo? “Io e Richard Rogers non abbiamo mai pensato di vincere. C’erano 681 studi d’architettura che partecipavano al concorso. Noi eravamo dei ragazzacci di poco più di trent’anni, dopo la consegna del progetto ci siamo rimessi a fare i nostri piccoli progetti senza neppure più pensarci. Ci avevamo provato”. E quando venne a sapere che avreste fatto il Centre Pompidou? Chissà che sorpresa… “Quando mi chiamarono da Parigi per comunicarmi che avevo vinto, era nel giugno 1971, ci ho messo mezz’ora per riprendermi dalla sorpresa. Subito non avevo neppure capito anche perché parlavo un francese scolastico: una voce femminile mi continuava a ripetere che ero lauréate io rispondevo che ero sì laureato, al Politecnico di Milano”. E invece? “Invece quella signorina cercava pazientemente di spiegarmi che avevamo vinto il concorso con giudizio unanime, venti giurati su venti avevano scelto il nostro progetto. Ancor oggi non mi capacito che ci abbiano permesso di farlo”. Perché? “Perché il Beaubourg è un gesto ribelle. L’idea di fare una fabbrica, per quanto culturale, nel centro nobile di Parigi era uno schiaffo. Eravamo nel’71, a soli tre anni dal ’68, nel periodo in cui i musei erano luoghi noiosi e polverosi. Eravamo giovani e disubbidienti, forse anche leggermente maleducati. Però una cosa l’avevamo capita…”. Cosa avevate capito? “Che non aveva senso costruire un luogo di cultura tradizionale. L’idea di rifiutare l’intimidazione tipica del monumento culturale, e invece usare la curiosità, ci fece pensare che questa fabbrica nel Marais potesse diventare l’opposto del museo fatto per l’élite. Infatti il nostro museo fu considerato una specie di sberleffo. E lo fu." Uno sberleffo che, secondo i maggiori critici, ha rovesciato l'architettura mondiale. “Ci voleva uno sberleffo. Di sacralità museale non si sentiva la mancanza, anzi. Lo stesso bando di gara, a ben ricordare, già suggeriva di uscire dalle frontiere tipiche della biblioteca e del museo. Parlava di cultura, ma anche di multifunzionalità. Di arte e di informazione. Di musica, ma anche di design industriale. C’era già qualcosa di trasgressivo nell’impostazione, bastava tirarlo fuori, spingerlo fino al limite, darne una interpretazione esplicita”. Scusi architetto, una curiosità: lei vive ancora a Parigi? “Quello con Parigi è un amore nato tanto tempo fa. Al posto di quello che oggi è il Beaubourg per quattro anni c’è stato un enorme cantiere dove andavo tutti i giorni. Penso di non averne saltato uno. Da Londra mi ero trasferito stabilmente a Parigi, prima al 5 di rue Danton e poi qui nel Marais in rue Saint Croix de la Bretonnerie. Poi siamo arrivati in rue Des Archives, dove abbiamo trasferito anche lo studio, e infine in place Des Vosges dove vivo tuttora. Insomma ho sempre vissuto qui in zona,non ho mai abbandonato il luogo del misfatto…”. Lei ama i cantieri? “Da bambino passavo le giornate in cantiere con mio padre Carlo, che era un piccolo costruttore. Le assicuro che crescere in cantiere lascia delle tracce profonde. Soprattutto l’idea che costruire sia un’attività straordinaria. I miei primi lavori non erano di architettura, piuttosto esperimenti di costruzione. E naturalmente, visto che mio padre costruiva in mattoni, io costruivo con l’acciaio. Era la scommessa del far leggero. Questa strana sfida di battersi contro la legge di gravità, un concetto un po’ balzano, ma che porta istintivamente a lavorare sul terreno della luce e della trasparenza”. La sua è un’architettura sostenibile? “È fondamentale parlare di sostenibilità dell’architettura, però bisogna specificare il senso: significa capire la natura, rispettare la fauna e la flora, collocare correttamente edifici e impianti, sfruttare la luce e il vento”. Quindi cosa intende per sostenibilità, un termine che va molto di moda in un mondo che abbiamo reso fragile? “La sostenibilità consiste nel costruire pensando al futuro, non solo tenendo conto della resistenza fisica di un edificio, ma pensando anche alla sua resistenza stilistica, negli usi del futuro e nella resistenza del pianeta stesso e delle sue risorse energetiche”. Torniamo a Beaubourg. Non doveva occuparsi solo di arte moderna,ma al museo andavano affiancate anche attività diverse… “Questa era l’idea di Georges Pompidou, un presidente illuminato. Diceva: “Mi piacerebbe che Parigi avesse un centro culturale come già hanno cercato di proporre gli Stati Uniti con un successo finora discontinuo, che sia museo e centro di creazione, dove le arti visive siaccompagnino alla musica, al cinema, ai libri, alla ricerca audio-visivae così via. Il museo non può essere che di arte moderna, dal momento che abbiamo il Louvre. La biblioteca attirerà migliaia di lettori che a loro volta saranno messi in contatto con le arti””. Ricordiamo ancora il giorno dell’inaugurazione nel 1977, cosa provò in mezzo a tutta quella folla? “Ricordo che c’era il regista Roberto Rossellini che stava girando un film proprio sul Beaubourg e mi disse: “Tu non devi guardare gli edifici, devi guardare gli occhi della gente che guardano gli edifici”. Fu un grande insegnamento, da allora non ho più perso l’abitudine, ad ogni edificio ultimato, di nascondermi dietro un pilastro e osservare attentamente la faccia che fa la gente. Ho imparato a cogliere il riflesso di un edificio negli occhi di chi lo guarda che è un tipico atteggiamento da cineasta”. Anche altri intellettuali si sono interessati al Beaubourg… “Sul cantiere venivano Umberto Eco, Michelangelo Antonioni, Marco Ferreri, Italo Calvino, che, tenendo in mano il suo taccuino pieno di piccole note, dava suggerimenti su come pulire le pareti di vetro. Mi consigliava di lavarle con giganteschi spazzoloni. Come quelli usati negli autolavaggi ma molto più grandi. Non ho mai capito se scherzasse o meno, comunque una delle sue Città invisibili che chiama Armilla ed è stata costruita dagli idraulici assomiglia molto al Beaubourg”. E Umberto Eco? “Nel Pendolo di Foucault immagina che le prese d’aria che spuntano nella piazza, io le chiamo orecchie, siano il canale attraverso il quale il popolo degli inferi comunica con il nostro mondo”. Non deve essere stato facile portare a termine un simile progetto… “La nostra forza fu essere scelti da una giuria internazionale, ma all'inizio non fummo visti bene. Fu necessario un decreto del presidente Pompidou, su suggerimento della moglie, la signora Claude, per dichiararci architetti francesi. Allora per costruire bisognava essere Grand Prix de Rome. Imparammo che l’architettura non è solo avventura dello spirito: è anche l’arte di navigare in mezzo alle tempeste. Tempeste vere”. Quali tempeste? “Sei cause legali cercarono di bloccare il cantiere con le motivazioni più bizzarre. Per dirne una: il presidente della giuria, Jean Prouvé, non era laureato in architettura. Prouvé, ultimo erede di Le Corbusier e dei grandi maestri francesi, era tanto distante dal mondo dell’accademia da non preoccuparsene minimamente. Questo mi fa ricordare un episodio molto bello che lo riguarda”. Quale episodio? “Anni dopo, io e altri amici comuni decidemmo che era il momento di fargli avere una laurea ad honorem. Alla proposta, Jean esitò a lungo, finché una sera mi disse: “Renzo, ti ringrazio, vi ringrazio tutti, siete molto gentili, ma non voglio avere la laurea. Lasciatemi morire ignorante””. Ma adesso il Beaubourg è un classico, i parigini lo rispettano…“Vede, qualsiasi edificio, anche il più atteso, contestuale e integrato all’inizio ha sempre un handicap: è nuovo, non appartiene alla metropolie ai suoi riti”. E poi ci fu una metamorfosi? “Subito dopo l’apertura il Beaubourg cominciò ad essere oggetto di un crescente amore. In principio c’era una divisione nettissima tra chi lo adorava e chi lo detestava. Con il passare del tempo è stato accettato e metabolizzato dai parigini e gli ammiratori sono cresciuti di mese in mese. Chi furono i suoi alleati nell’avventura? “Avevamo un alleato importante in casa Pompidou: la moglie, la già citata Madame Claude Pompidou, con cui nacque un’amicizia che è durata fino alla sua scomparsa nel 2007. E poi Robert Bordaz, allora direttore del centro, ci aiutò moltissimo. Gli intellettuali del Comité pourle Geste Architectural sostenevano che era sacrilega una struttura con elementi tubolari a vista a due passi dalla chiesa gotica di Saint-Merri. Bordaz s’inventò che nel progetto c’era una visione gotica e che i tubi verticali facevano eco alle guglie di Saint-Merri. Una bugia colossale, era un genio”. E oggi è ancora legato al Centre Pompidou? “Ai propri lavori si resta legati da una sorta di cordone ombelicale. Sono tue creature, e in qualche modo non le perdi mai di vista. Quarant’anni fa misi il mio ufficio nello stesso quartiere del Centre Pompidou: è ancora lì. Poi è il Beaubourg che non mi lascia mai. Una volta venne in ufficio a trovarci una signora giapponese e chiese i disegni. Me li venda, disse, e io lo rifaccio a Tokyo. Peccato che appartengano allo Stato francese, signora, si rivolga a loro, risposi”.“ Il successo del Beaubourg è anche connesso al quartiere, il Marais? “Doveva essere fatto lì, è un villaggio medioevale. La differenza è che si sviluppa in altezza: la sequenza è verticale, invece che orizzontale, quindi le piazze sono una sopra l’altra, e le strade trasversali. Come un villaggio medioevale, è un luogo di incontro e di contatto: il luogo del passeggio, dell’incontro inatteso, della sorpresa e della curiosità”. Il Beaubourg è stato il suo primo lavoro a Parigi. L’ultimo invece? “Il nuovo palazzo di Giustizia di Parigi, a Nord della città. Il nuovo edificio istituzionale sorge nel quartiere Batignolles. Si trasferirà lì tutto il tribunale, quella zona tornerà a vivere. Le periferie sono lontane, prima che dal punto di vista geografico da quello culturale ed economico. Bisogna rivitalizzarle, portarci la vita. E sa che cosa può favorirla? Il fatto di intervenire attraverso edifici pubblici. I luoghi pubblici portano urbanità. E possono essere ospedali, tribunali, università, scuole. Mi inserisco inquesto grande tema urbano”. Ma il Centre Pompidou invece sorge in pieno centro… “Questi grandi edifici esprimono l’urbanistica e la civiltà. All’epoca del Pompidou, i dibattiti riguardavano i centri storici. Oggi, bisogna salvarele periferie. Cancellare la nozione negativa di periferia è la sfida dei prossimi trent’anni". Le periferie sono anche al centro del suo impegno come senatore a vita in Italia. “Quando l’allora presidente Giorgio Napolitano mi ha nominato senatore a vita, mi sono chiesto: cosa posso fare per il mio Paese? Io non sono un politico, ma un architetto anche se a ben pensarci il termine politico deriva dal greco polis, che è la città”. E cosa si è risposto? “Che dovevo continuare a fare quello che so fare: l’architetto e mettermi a disposizione della società. E allora ho pensato alle periferie che sono la parte più fragile delle nostre città. Ma anche la parte più popolosa, giovane e dove c’è energia. Dobbiamo rammendarle e renderle urbane, nel senso di civili e vivibili. Se non ci riusciamo saranno guai, come dimostrano tutti i problemi che in questi anni abbiamo visto nascere anche nelle banlieues parigine. Sto occupandomi delle periferie italiane, io con dei giovani architetti che ho assunto utilizzando il mio stipendio da senatore”. Cosa pensa delle banlieues di Parigi? “Sono anni che ripeto la stessa cosa: il disagio non è solo questione di povertà ma piuttosto di esclusione, di negazione dell'identità che produce odio. Tutte le città sono egoiste, tendono a trattenere nel centro le attività d'interesse e a relegare le periferie nel ruolo di dormitori. Ma le città francesi mi pare che l’abbiano finalmente capito e il nuovo tribunale a Batignolles lo dimostra”. Come è progettato il nuovo tribunale di Parigi? “Uno strano grattacielo di 160 metri: sarà una struttura a strati sovrapposti, leggera e luminosa. Una lanterna magica, una presenza levitante che trasmette serenità”. Quando si entra in un’aula di giustizia la serenità è importante. “Entrando nel palazzo di giustizia, si è fragili. Questo stato di fragilità, deve essere considerato. Dobbiamo creare uno spirito di fiducia per la persona che sarà giudicata. Si deve ispirare fiducia, creare un clima di calma e serenità, ma anche una certa austerità”. Restando a Parigi, lei ha costruito anche quello stravagante animale che è la sede della Fondazione Pathé, nel 13° Arrondissement. “Potete vederci un pesce, una balena, una mongolfiera, ci vuole della poesia. Questo edificio si spiega da solo, è stato costruito con tutti gli occhi addosso, nel rispetto delle finestre vicine, senza togliere loro nemmeno un raggio di sole. Io questo edificio lo vedo come un'arca di Noè pronta a salpare con il suo tesoro, qui dentro sono custoditi centoventi anni di storia del cinema”. Costruire in mezzo al costruito di una metropoli. Con limiti molto rigidi. “Inserire un’architettura in una città con una stratificazione storica come Parigi è una sfida complessa, ti obbliga a un dialogo con l’esistente. Qui lo spazio a disposizione era molto stretto. La forma strana di questoe dificio è dettata dalla necessità”. Come ha risolto il problema? “Venite a vederla. Durante il giorno questa architettura è una presenza discreta nella vita del quartiere, la notte invece è un’apparizione che emana luce soffusa. È un edificio che si nasconde un po’, ma non per timidezza. Direi piuttosto per riservatezza e rispetto. Si accoccola sulla città. Non è invisibile, ma non si esibisce”. Cosa significa per lei essere architetto? “Quello dell’architetto è un mestiere d’avventura: un mestiere di frontiera, in bilico tra arte e scienza. Sospeso tra il coraggio della modernità e la prudenza della tradizione. L’architetto fa il mestiere più bello del mondo perché su un piccolo pianeta dove tutto è già stato scoperto, progettare è ancora una delle più grandi avventure possibili”. Un mestiere di frontiera? Ci spieghi meglio. “Abitare la frontiera significa eludere i confini. Io ho scelto di lavorare confondendo le acque e mescolando le discipline. Non mi interessano le differenze fra le arti e le scienze, mi interessano piuttosto le similitudini. L’architetto è soprattutto un esploratore: vive sulla frontiera, e ogni tanto sconfina, va a vedere che cosa c’è dall’altra parte”.

Il Centre Pompidou in cifre

10 piani di 7.500 mq. 12.210 mq dedicati alle collezioni del Museo Nazionale d’Arte Moderna. 2.900 mq dedicati alle mostre temporanee. 100.000 opere. 2 sale cinema (315 e 144 posti). Una sala spettacoli (384 posti) e una sala conferenze (158 posti). Una biblioteca pubblica di 10.400 mq che può ospitare 2.200 lettori. Un centro di documentazione e ricerca, la Biblioteca Kandinsky, 2.600 mq,riservata agli studiosi. Oltre 300.000 opere.

Gli eventi per i 40 anni

Il Centre Pompidou festeggia i suoi 40 anni con una serie di mostre e di eventi in tutta la Francia, iniziati in grande stile nel week-end del 4 e 5 febbraio e fino ai primi mesi del 2018. Un anniversario condiviso da 40 città (compresa Saint-François in Martinica) e 75 partner, musei, centri culturali. Il ricchissimo programma, 50 mostre,15 fra spettacoli, concerti e performance, propone alcune chicche, come il film, il suo ultimo, che Rossellini dedicò all’apertura del Beaubourg nel ’77, e di cui parla Renzo Piano nell’intervista, accanto a grandi mostre su Fernand Léger,André Breton, Picasso… Compresa una grandiosa installazione di Daniel Buren al Centre Pompidou di Malaga.

di Carlo Piano

Tutto il programma e le informazioni su www.centrepompidou40ans.fr

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